lunedì 30 maggio 2016

SABATO in casa CIARAVAL

Era il 1942, ma poteva essere 10 anni prima o anche dopo. In questa casa di contadini il tempo aveva cadenze prevedibili ancora per un po', o almeno così si pensava. Nonno FITA (Giuseppe) di cognome faceva Geminiani, ma al mercato di Imola lo conoscevano così, anche se qualcuno cominciava a chiamarlo FITONA. Già perché allora, ma ancora per molti po', usavano le bretelle alle quali mio nonno aggiungeva anche "e curzé", la cintura alta di cuoio, per in qualche modo ridurre la circonferenza testimone di cibo sano e abbondante.
 
Assieme a lui GIANO', Giovanni, fratello e quindi zio e prozio della tribù. Gianò era scapolo o, come si diceva in Romagna "zion" con quella "o" nasale che ricorda come quella terra tutto sommato un tempo fosse gallica. Ed era tanto vero che ogni tanto l'aratro scoperchiava delle lastre di marmo a ricordo del decumano e delle centuriazioni e di come nei nuovi insediamenti romani era iniziata la vita (e la morte) perché tutto divenisse un continuum romano. In tutto il territorio circostante quella casa, posta sul tracciato che portava da Ravenna a Bologna, era ed è ancora evidente nell'ordinata disposizione dei campi e delle proprietà un impronta millenaria sopravvissuta perché di lì da secoli, anzi millenni, il mondo camminava a piedi, a cavallo fosse di umani o di cose. La chiamano tuttora via Lughese perché a Imola si stacca dalla Via Emilia per andarsi a raccordare con la Ravegnana a Massalombarda (e poi Lug) al margine delle valli ferraresi, quel ferrarese, sulla sinistra andando verso Ravenna, che era ed in parte è il regno delle zanzare, della malaria e, per molti secoli, della miseria.
 
Ma qui non c'erano ricordi di miseria, Fita e i due suoi fratelli (Gianò e Celso) erano arrivati lì alle soglie del '900, i due fratelli erano ancora scapoli e Fita no, aveva già provveduto sposando IUSFINA, Giuseppina, e il primo figlio era arrivato nel 1902, Arcangelo detto Canxi, e poi PRIMO (era il secondo e forse era il "primo" concepito da sposati, perché bisognava pur collaudare la sposa prima di metter su casa e i prati sono anche morbidi e in campagna le scuse son tante per sentirsi giovani e volerlo dimostrare a sé e al mondo).
 
Poi c'erano stati Domenico (Minghì), Ernesto e Lino (questi due nomi insoliti non avevano suggerimenti locali) per finire con Valda (come le pastiglie, o forse per qualche ricordo gallico che tralignava dal colorito fin troppo bianco, il colore biondo rossastro dei cappellucci fragilissimi e sottili, da "gagia" come si dice in dialetto, e le lentiggini oltre al carattere impossibile - ma questo si scoprirà molto dopo- che a tempo debito sarà mia madre). Molti anni dopo un incidente di percorso, o un eccesso di entusiasmo recuperato (mio nonna qualche volta aveva sorpreso fra i campi di granturco mio nonno che approfondiva delle conoscenze con qualche giovanotta a giornata) avevano portato a Carolina (classe 1923) e fine della serie.
 
Qualcosa di nuovo comunque stava accadendo, Lino era stato spedito in Libia a fare il militare ed era andato avanti e indietro in divisa fino al 1942 (nasce la mia meravigliosa cugina Bruna), Domenico stava per partire con gli alpini, direzione Grecia. E qualcosa di nuovo era pure accaduto a livello patrimoniale, da mezzadri (negli anni dopo il 1922) eran diventati proprietari anche se nulla era cambiato. E nulla cambiò per molti anni ancora, ricordo che già arrivati negli anni attorno al 1960 in casa (tra adulti e bambini circa 23 persone) c'erano  solo biciclette, non più di tre ciclomotori e una Gilera 150 per i miei due cugini più grandi. Niente auto, ma due trattori ed altri aggeggi meccanici utili al lavoro dei campi e della cantina e fu fonte di meraviglia per me pochi anni dopo vedere che in altre regioni usavano ancora cavalli e bovini per arare e sull'aia c'erano dei 1100 scassati a dimostrare la modernità.
 
Ma i ricordi han preso il sopravvento o forse semplicemente era necessario, e mi piaceva, presentare l'ambientazione e il clima. Pur divisi in due poderi con rispettive case a un paio di chilometri l'una dall'altra la struttura era patriarcale anche se l'elaborazione delle strategie era decisamente democratica e avveniva a tavola con tutta la tribù con diritto di voce, maschi, femmine e persino nipoti (me compreso, figlio di una femmina che viveva altrove, a Ravenna, ma all'epoca ero lì a iniziare le elementari perché mio padre era "volontario" in Russia e mia madre a Ravenna con mio fratello), perché il lavoro e il reddito erano egualitari.
 
Ma ci sarà altra occasione di riparlarne.
 
Torniamo allora al sabato, lo si avvertiva da subito al mattino presto, bastava arrivare al piano terra (il dormire era nelle stanze al primo piano) e notare che tutti erano vestiti non da zappa e polvere e neppure stivali di gomma quando si vuotava la buca del letame fuori dalla stalla, ma neppure da domenica, ma in modo lo stesso più disinvolto. E poi il richiamo decisivo era il GNIC GNAC della GRAMOLA
 
 
 
Già la  gramola, sullo sgabello a sinistra siede l'operatore, 2 baldi giovani sono a destra e stringono i due terminali in basso, uno destro e l'altro sinistro, alzando la leva in modo ritmato  così che la barra centrale si alza e s'abbassa. L'operatore sullo sgabello maneggia un blocco di qualche dieci kili di pasta lievitata ruotandola continuamente fino a ché il tutto  assume un aspetto omogeneo ed elastico (10/15  minuti).
 
Allora si passa il tutto a chi forma le pagnotte di circa 1 KG che verranno messe a lievitare sotto delle morbide coperte di lana, dopo aver tracciato un solco al centro per l'uscita della anidride carbonica prodotta dai lieviti vivi che rigonfieranno la massa. Migliore è la gramolatura, migliore sarà l'aspetto e il sapore e il come si scioglie in bocca e si conserva per la settimana.
 
Intanto Gianò provvedeva a scaldare il forno fuori, proprio a fianco dello "stalletto", bruciando le fascine di legna risultate dalle potature stagionali, quello stalletto dove si allevano i maiali per i prosciutti, salami ed etc. etc. di Natale.
 
Ma per noi nipotini di varia età, che comunque al sabato a scuola ci dovevamo andare, il momento clou era la PIE' o PIADA (oggi PIADINA) bella, spessa, cosparsa di formaggio morbido e con l' assaggio eccezionale di un qualche sorso di vino, quello buono, quello santo. E poi, leccornia somma,  la "pié freta", la pizza fritta bella rigonfia, fritta nel paddellone con dentro lo strutto bollente. 
 
Ma ormai era tardi, già le otto, stavano arrivando all'incrocio della Lughese i compagni di scuola, preparare le cartelle e, se era inverno, il pacchetto di legna per la stufa in classe e poi su e giù a prese in giro per i più piccoli (come me, ero in prima) e che bello quando era ghiacciato il canalone e, per fortuna, il ghiaccio non s'era mai rotto nonostante le scarpe chiodate con cui gli andavamo sopra...
 
PS: per i maschi adulti c'era il dopo, uno degli zii era bravo con pennello sapone e rasoio e così tutti gli altri pronti a farsi spennellare, radere con il contropelo mentre le femmine adulte intanto riempivano le borsone di paglia con dentro, a seconda della stagione, polli, colombi, conigli, uova per andare al mercato, il ricavato era loro personale, lo SPILLATICO, non andava alla cassa comune. 

6 commenti:

  1. Gran bel racconto :) Mi ha riportato alla mente me da piccolina, quando mia nonna faceva il pane. Le "maille" con l'impasto fatto con il lievito dato da qualche vicina ( ce lo si prestava e poi si ripagava con un pane caldo) Le mie zie portavano le potature della vigna al forno nei giorni precedenti (e nessuno le rubava!) e si andava ala forno rionale. Ricordo come se fosse ieri la fornaia, si chiamava Carmenia ed era sempre stata uguale. Era lei che infornava e sfornava, non faceva toccare il forno a nessuno, il resto lo facevano le mie zie. Ah, sai che a me (ero l'unica nipote e sarei stata l'unica per ben cinque anni) mi facevano un pane a forma di bambola con le trecce? :) Che ricordi! Se chiudo gli occhi sento ancora il profumo del pane quando usciva dal forno, e le risate delle mie zie, e mia nonna, burbera, che le richiamava sempre all'ordine.
    Grazie Benito :) mi ha fatto sognare per tutta la durata del racconto. Ti rinnovo l'invito a dare una sistemata ai tuoi scritti e a pubblicarli, sono preziosi per il loro contenuto.

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  2. A volte mi vien da pensare come sarebbe OGGI una comunità di parenti OGGI... Poi mancherebbero le basi socio-etc. Bene o male in quegli anni c'era stato uno sviluppo economico e sociale ma restava, da noi in parte per fortuna attutito, il senso del clan, dell'appartenenza. Poi negli anni del dopoguerra qualcosa cominciò a cambiare, le "morose" dei miei due cugini più grandi si sarebbero sposate solo "dopo" il ritiro in città in appartamenti singoli ed etc. A me forse quella nostalgia è dovuta al fatto che vivendo in città l'andare in campagna accolto con calore, sembrare persino utile, tornare in paese in mezzo a tante persone ruvidamente cordiali mi faceva sembrare quasi un giovanotto... E poi mia madre, finalmente, ROMPEVA MOLTO MENO :).

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  3. Oggi? :( Oggi neppure si conoscono tra parenti, che poi i clan parentali son ridotti all'osso, siamo nell'epoca dei figli unici (e senza imposizioni del comitato centrale)

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  4. Anche mio padre andò in guerra in Libia! E i ricordi d'infanzia legati al mondo agreste ancora oggi sono per me i più belli. Chissà...forse per i nostri nonni, i nostri zii, erano tempi difficili, faticosi, ma per noi bambini quel mondo era magico, con i campi di grano pieni di papaveri e fiordalisi, i trattori che ci affascinavano con la loro potenza, gli animali della cascina e le feste sull'aia, con le famiglie patriarcali e i loro amici. Erano tempi duri, ma io ricordo tanti visi felici. Forse erano veramente più felici di noi, che abbiamo tante comodità, ma anche tanto stress e solitudine.

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    1. tempi duri e/o morbidi... Per i cuccioli spazi, varietà, libertà sono impagabili e i desideri sono quelli del contesto. "Rubare" un biscotto o un pezzo di piadina dalla madia era impagabile, specie sotto gli occhi volutamente distratti della ARZDORA di turno...

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